Pesce grande mangia pesce piccolo: il declino di Netflix e Spotify
Cosa è successo: C’è una certa ironia nel fatto che “Playlist”, la serie dedicata alla storia della fondazione di Spotify, sia uscita su Netflix. I prossimi anni potrebbero infatti vedere queste due imprese, pioniere del mondo dello streaming, perdere progressivamente terreno rispetto ai competitor, con il rischio di venirne acquistate, se non addirittura liquidate.
Perché? La risposta è in una delle leggi più antiche e spietate della natura: pesce piccolo mangia pesce grosso. Oppure, per trovare un parallelismo storico, per lo stesso motivo per cui le città marinare italiane del medioevo, da grandi potenze internazionali che erano, si trasformarono con l’emergere dei grandi stati nazionali del Rinascimento in piccole potenze di Serie B. Per poi esserne conquistate.
I “pesci piccoli” di questa storia abbiamo già capito quali sono: imprese come Netflix e Spotify che nell’ultima decade si sono letteralmente inventate nuovi mercati per una attività (lo streaming) un tempo confinata alla circolazione illegale di contenuti video e musicali.
E i “pesci grandi”? Ebbene, gli squali di questa storia sono corporation già enormi grazie alle loro attività in altri settori, che da qualche anno si sono affacciate sul mercato dello streaming offrendo contenuti di alta qualità a prezzi estremamente competitivi. Tutti noi siamo stati tempestati da messaggi pubblicitari che ci intimano di non perdere ulteriore tempo e iscriverci ai servizi musicali di Amazon o di YouTube (Google). Molti noi hanno finito per soccombere e iscriversi alle loro piattaforme di streaming video, come Amazon Prime e Disney+.
Titoli in esclusiva e prezzi competitivi hanno finito per rompere i nostri indugi. Mentre, al contrario, da qualche mese notiamo una offerta di Netflix un po’ più rarefatta di nuovi titoli di grande impatto. E pure l’obbligo di aumentare il costo del proprio abbonamento per non incorrere in pubblicità durante lo streaming. Ma come? Proprio adesso che sul mercato si sono fatti forti questi nuovi contendenti?
Ebbene, la risposta a questo comportamento apparentemente irrazionale è da trovare molto di fuori di Netflix e della sua leadership. L’aumento globale dell’inflazione ha portato le principali Banche centrali di tutto il mondo ad aumentare i propri tassi di interesse ad un ritmo mai visto da oltre vent’anni. Questo ha messo fine al lungo periodo di bassissimi tassi di interesse e, di conseguenza, di credito abbondante e a basso costo che aveva reso possibili enormi investimenti da parte di imprese innovative come Spotify e Netflix. Il tempo dei soldi facili è finito, e ora i due colossi dello streaming si ritrovano a dover competere basandosi soltanto sui guadagni derivanti, appunto, dallo streaming. Un problema pressoché inesistente per colossi come Amazon e Google, che hanno a propria disposizione gli enormi guadagni derivanti dalle loro attività principali di commercio e servizi online da riversare in mercati nuovi come questo, potendosi permettere di continuare anche a farlo in perdita per un po’. Una sfida impari che potrebbe portare presto a grandi cambiamenti in un mercato con cui molti di noi hanno ormai a che fare quotidianamente dal divano di casa.
Perché è importante: Certamente sapere come e quanto pagheremo i nostri abbonamenti streaming in futuro è già di per sé piuttosto importante. Ma non è tutto qui. Le dinamiche del mercato dello streaming rispecchiano una tendenza che ha caratterizzato il mondo tecnologico negli ultimi vent’anni e che sembra essere giunta alla fine. Ovvero quell’abbondanza di capitali a basso prezzo che aveva reso possibile la fondazione e la crescita di imprese certamente innovative e interessanti, ma non necessariamente molto profittevoli. È infatti molto indicativo il fatto che due imprese come Netflix e Spotify siano arrivate ad avere centinaia di milioni di abbonati in tutto il mondo senza essere riuscite a consolidate efficacemente la proprio stabilità economica, tanto da rivelarsi estremamente fragili all’arrivo della prima tempesta finanziaria. Una realtà che sta emergendo non solo per i due colossi dello streaming, ma per una lunga lista di imprese del settore tech cresciute fino al 2020 a ritmi forse ben superiori a quanto le loro “fondamenta” avrebbero permesso in tempo diversi (“criptovalute” vi dice qualcosa?). In un passato ormai quasi dimenticato, le imprese tecnologiche si sviluppavano molto più lentamente e assicurandosi nel processo la certezza di margini di profitto assai più stabili. L’abbondanza di credito ha reso quest’ultimo aspetto relativamente secondario. Almeno fino ad oggi.
Guerra per caso: Armenia e Azerbaigian e gli scontri al confine
Cosa é successo: La strada verso un accordo di pace é quasi sempre dettata (anche) dalla casualità. É difficile che due Stati che si sono combattuti con la forza delle armi si fidino l’uno dell’altra, ed è per questo che gli incidenti militari che possono accadere durante i negoziati possano far deragliare anche i colloqui più in buona fede. E gli incidenti succedono. Detta in soldoni: più soldati sono schierati, uomini e donne in carne e ossa con le proprie idee, le proprie paure e sopratutto i propri fucili, più è probabile che a qualcuno scappi un colpo.
Basta guardare all’Armenia e dell’Azerbaigian. A settembre ci sono stati nuovi scontri al confine fra i due, l’ennesimo scontro nella decennale disputa sull’enclave del Nagorno-Karabakh, riconosciuta a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian, ma controllata in larga misura dall’etnia armena, con il sostegno di Erevan. Ciascuna delle due parti ha accusato l’altra di aver scatenato l’ultimo scontro, e l’Armenia ha affermato che l’Azerbaigian si sarebbe impadronito di insediamenti all’interno dei suoi confini. A fine settembre è stato concordato un cessate il fuoco e il mese scorso, a Praga, i due Paesi hanno acconsentito all’insediamento di una missione civile dell’Unione Europea sul loro confine.
Entrambi i Paesi hanno buoni motivi per porre fine al conflitto. L’Armenia non ha la forza per riprendersi un exclave ormai in mano a Baku, mentre l’Azerbaigian ha raggiunto i propri obiettivi territoriali e vuole evitare di diventare un paria internazionale. Ma gli scontri rendono difficili colloqui già appesantiti da decenni di violenze, oltre che a diverse sensibilità rispetto agli attori esterni al conflitto. Da ultimo, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha dichiarato che il suo Paese non avrebbe tollerato la presenza della Francia (tradizionalmente pro-armena) ai colloqui di pace, annullando l’incontro a quattro con il presidente francese Emmanuel Macron e il capo del Consiglio europeo Charles Michel, che si sarebbe dovuto tenere a Bruxelles il 7 dicembre.
Perché è importante: Ma se queste tensioni si possono ritenere ordinaria amministrazione per dei leader che devono comunque dimostrarsi forti nonostante il compromesso di una pace negoziata, nuovi spargimenti di sangue sul campo potrebbero provocare nuove escalation. Secondo il Ministero della Difesa azero, settimana scorsa le forze armate armene avrebbero aperto il fuoco contro le postazioni dell’esercito azero nella regione di Lachin, mentre la settimana precedente le autorità militari di Erevan avevano dichiarato che le forze armate dell’Azerbaigian avrebbero sparato in direzione delle postazioni armene situate lungo la parte orientale del confine. Ovviamente, questo tipo di azioni riducono la volontà dei due Paesi di continuare il negoziato – specialmente in Azerbaigian, che dei due detiene le forze armate meglio equipaggiate.
Insomma, scambi di fuoco spesso casuali come questo potrebbero distruggere il fragile cessate il fuoco e inasprire la situazione ulteriormente, alimentando la retorica dei più intransigenti in entrambe le capitali.
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