Se c’era un tema che in un siffatto ambiente ritornava in maniera prepotente in qualsiasi discussione – da quella sull’efficienza dei sistemi economici per la qualità della vita individuale a quelle sulla durata dei conflitti tra tribù di macachi e il loro rapporto con le dispute militari ed economiche umane – era quello dell’ineguaglianza di reddito e ricchezza.
Dopo una mattina passata a muovermi felpato per i vari panel come il basista di una rapina riuscii a fare amicizia con un giovane ricercatore italiano che lavorava per una università del nord Europa e che mi era parso più approcciabile degli altri. Durante la mattinata avevo imparato che le T-shirt eccentriche in questo ambiente sostituivano la divisa da conferenza tipica del mondo di politologi da cui provenivo, ovvero giacche di velluto di cattivo gusto, simbolo silente del contrasto tra pretesa e realtà dello status sociale dell’accademico umanista odierno. Il fatto che tutti indossassero T-shirt eccentriche ne abbassava di certo l’eccentricità complessiva, ma tutto sommato rimaneva comunque un colpo d’occhio assai meno deprimente rispetto a quello denso di frustrazione e sentimenti di deprivazione relativa a cui ero abituato. Il mio nuovo amico indossava una maglietta che riportava in coloro sgargianti la formula centrale del libro dell’economista francese Piketty, che per tenere fede alla fama della sua nazione aveva scritto un’opera umile fin da titolo, “Il Capitale del XI secolo”. La formula in questione è conosciuta con il semplice r > g (ovvero tasso di interesse maggiore di tasse di crescita). Nell’attaccare bottone gli chiesi se non si trattava di un messaggio un po’ troppo criptico per una maglietta. Il mio nuovo amico si mise a ridere, “Scherzi? Le studentesse della mia facoltà ne vanno matte”.
Dopo aver velocemente valutato quanto tempo della mia vita avevo sprecato indossando magliette dozzinali e venendo comunque ignorato dall’altro sesso, cominciai a capire quanto nel mondo dell’accademia il tema dell’ineguaglianza stesse diventando ben più di un flirt di breve periodo pompato dal libro di un accademico diventato stereotipo vivente dell’umiltà intrinseca nel suo passaporto. Un vero e proprio status symbol si stava rapidamente espandendo dall’accademia alla cultura pop, o almeno a quella accessibile a buona parte dei giovani occidentali in grado di leggere un testo complesso (quindi in Italia comunque pochi).
Si trattava tutto sommato di un fatto comprensibile. L’ineguaglianza tocca corde efficaci che affondano nelle radici della cultura occidentale. Dai tempi di Davide e Golia passando per Robin Hood e i cartoni Disney, l’ineguaglianza è stata alla base dei prodotti culturali più virali della storia occidentale. Gli underdog che si ribellano alla al potere costituito e trionfano nonostante l’ingiusta condizione iniziale sono tra gli eroi più stereotipati a cui ci siamo abituati e questa facile risonanza è stata finora la forza determinante per la diffusione popolare della questione dell’ineguaglianza.
Se questo è ovviamente un bene, è però anche vero che ne ha causato anche inevitabilmente una forte semplificazione in un framework essenzialmente dicotomico – Davide VS Golia; ricco VS povero – quando invece, a ben guardare, si tratta di un fenomeno assai più tridimensionale e meno intuitivo.
Uno percento chi?
Se infatti pensiamo all’inuguaglianza quasi tutti noi, a parte forse Bill Gates e George Soros, ci sentiamo dalla parte dei poveri, ovvero dei “buoni”, opposta a quella dei “cattivi”, ovvero quello che per esempio il movimento di Occupy Wall Street additava come l’1%. Se in effetti il tema della ricchezza accumulata nelle ultime tre decadi dalla frangia più marginale degli straricchi è sicuramente rilevante e torna spesso in numerosi studi sul tema, è anche vero che l’appiattimento dicotomico rischia di farci perdere molto di quello che è il grande tema dell’ineguaglianza e tutte le sfumature che essa comporta anche in fatto di auto-percezione dei propri privilegi e dei propri meriti. Un paio di anni fa il New York Times pubblicò una bellissima inchiesta condotta tra l’alta società di Manhattan (che link appena la riesco a ritrovare), che mostrava come quasi tutti gli intervistati non si sentivano affatto appartenenti a un gruppo ristretto e privilegiato, quanto normali esponenti della società che, esattamente come altri individui infinitamente meno ricchi di loro, guardavano con invidia alla vita e ai privilegi di coloro che avevano di più, ovvero l’1% dell’1%. Se guardiamo all’ineguaglianza come una sorta di lotta tra buoni e cattivi rischiamo di faticare a trovare quelli della squadra avversaria una volta che li andiamo a cercare, e questo non perché l’1% non esista ma perché spesso non pensa di esserlo, o se lo sa, pensa che almeno lui (o lei) abbiano quel che hanno per merito, al contrario di quegli altri (chiunque essi siano) che hanno ingiustamente più di loro.
Ineguaglianza reale VS ineguaglianza percepita
Ma la percezione di sé stessi e del mondo che ci circonda quando si parla di disuguaglianza inganna anche in un altro modo. Un’altra cosa che raramente affiora nel dibattito popolare appiattito sulla dicotomia “buoni VS cattivi” è infatti la grande differenza che passa tra percezione della disuguaglianza e disuguaglianza reale. Quando ero ancora un giovane ingenuo ricercatore convinto che l’accademia fosse un posto dove si discutono idee nuove e diverse e non la più grande fabbrica di omologazione ideologica dai tempi del Comintern, passai diversi mesi a discutere con alcuni colleghi dell’abissale differenza, provata empiricamente, tra percezione di ineguaglianza e dato reale. Ancora oggi, soprattutto in alcuni ambiti della politologia italica (dove non saper contare pur usando dati è diffusa cifra d’onore), si sente spesso parlare dell’aumento delle diseguaglianze come causa principale delle rivolte popolari degli ultimi anni in molti paesi in via di sviluppo. A ben vedere però, i dati disponibili per molti paesi non riportano cifre di disuguaglianza particolarmente alte, né particolarmente ascendenti, soprattutto se compariamo per esempio le cifre piuttosto contenute del mondo arabo, attraversato da rivolte da un decennio, a quelle di altre parti del mondo come il Sud America. I dati che molti giornalisti e ricercatori invece seguono a riportare sono quelli della diseguaglianza percepita, in costante aumento da almeno una ventina d’anni. Ebbene, numerosi studi sull’argomento (qui trovate un esempio) hanno dimostrato come l’andamento nella percezione della diseguaglianza non abbia nessuna correlazione con il dato reale della diseguaglianza, bensì con altri fattori come la mobilità sociale e la comparazione tra la propria condizione e quello delle generazioni precedenti. Per intenderci, in paesi o periodi storici caratterizzati dall’aumento delle diseguaglianze a causa di boom economici c’è di solito grande mobilità sociale e la gente non percepisce grande diseguaglianza (e comunque non la percepisce negativamente). Al contrario, quando la società subisce un impoverimento e in generale le persone (o parte di esse) si trovano ad avere meno rispetto a quello che avevano imparato ad aspettarsi guardando all’esperienza delle generazioni precedenti, il bisogno di trovare una spiegazione e, soprattutto, un capro espiatorio porta la gente a guardare con sospetto e invidia chi ha più di loro e a percepirne la ricchezza esagerata (proprio in quanto ingiusta).
L’effetto Dunning-Kruger allargato: ineguaglianza e la nostra natura di animali sociali
Ma al di là di questa semplice ipersemplificazione della questione, che sembra essere un po’ la costante del dibattito pubblico moderno, esiste almeno un altro elemento quasi sempre ignorato in qualunque conversazione sulla questione e che almeno in Italia spiega tanto della totale immobilità sociale (e conseguente diffusa incazzatura sociale) che vive la società: l’effetto Dunning-Kruger, ovvero l’effetto che crea l’ineguaglianza di reddito e ricchezza quando si tramuta in un diverso accesso all’informazione collettiva.
L’effetto Dunning-Kruger ha avuto un recente picco di popolarità con l’avvento dei partiti populisti. Nella sua versione più semplice, esso spiega infatti come chi sa meno di un certo argomento tende a essere più sicuro delle proprie convinzioni rispetto a chi sa di più, alimentando quel crescente scetticismo verso l’establishment scientifico che è cifra diffusa del populismo moderno. Anche negli articoli più ben fatti su questa versione “semplificata” della teoria di Dunning e Kruger (qui trovate un esempio) si tende però ad assumere che l’effetto si quanto più accentuato in chi non sa assolutamente nulla di un argomento. Gli esperimenti dei due autori hanno però mostrato come il possedere una educazione superficiale – risultato tipico dell’educazione italiana – sia un amplificatore assai maggiore rispetto a non possederne alcuna. Se ne sai “qualcosa” ti sentirai molto più sicuro di saperne molto rispetto sia a chi non ne sa assolutamente nulla sia a chi ne sa molto davvero. Una verità con cui si è scontrato chi come me ha fatto lezioni in giro per l’Italia su argomenti spesso vittima di grandi teorie della cospirazione come le guerre in Medio Oriente. È assai più semplice spiegare fenomeni complessi come questi a una platea di persone che non ne sapevano nulla un attimo prima rispetto, per esempio, a una platea di studenti che qualcosa ne sanno: non abbastanza per capirne l’intera complessità, ma abbastanza per poter comprendere e abbracciare i concetti basilari delle migliori teorie cospirative.
Ma l’effetto Dunning-Kruger va molto oltre le pure questioni di gap cognitivo tra conoscenza percepita e conoscenza reale. In un saggio pubblicato nel 2017 intitolato “The Knoledge Illusion” i sociologi Philip Fernbach e Steven Sloman hanno illustrato una verità tanto vera quanto inconsciamente ignorata dalla maggior parte di noi, specialmente da coloro che ritengono di avere un alto livello culturale: l’ignoranza, sostanzialmente universale, che ognuno ha verso quasi tutto ciò che ci circonda. Per polverizzare subito qualunque dubbio, nell’introduzione i due autori propongono un quesito in grado di abbattere ogni residuo scetticismo: sapreste spiegare esattamente come funziona il vostro scarico del cesso? Se appartenete all 99,9% dell’umanità che ne ha solo una vaghissima idea pur trattandosi una apparecchiatura che tutti usiamo più volte al giorno e, almeno apparentemente, non troppo complessa, allora cominciate a capire la tesi centrale del libro.
I due autori sostengono infatti che gran parte della nostra conoscenza, soprattutto quella che ha permesso alla nostra specie di ottenere risultati notevoli in campo tecnologico, risiede infatti nella conoscenza collettiva che conserviamo appunto come gruppo o specie, di cui ognuno di noi singolarmente è depositario solo di una infinitesimale frazione. A sua volta, per quanto all’apparenza molto vasta, tale conoscenza è estremamente limitata alla piccola esperienza della nostra specie su questo piccolo scoglio che chiamiamo pianeta inserito in un universo estremamente più grande. La conoscenza di ogni individuo è quindi solo la frazione infinitesimale di una conoscenza collettiva complessiva a sua volta infinitesimale. Ovviamente si potrebbe andare avanti ore in questo loop rischiando di ricadere nella saggia banalità popolare dei tentativi di rimorchio de “Andiamo a vedere le stelle” e “ci pensi a quanto siamo piccoli rispetto all’universo? Stringimi forte...”.
Ma il punto è che questa condizione non si applica solo ai grandi misteri dell’esistenza ma anche ad aspetti molto più pratici della nostra vita quotidiana. Per esempio, uno degli aspetti più banali di qualunque teoria che studia il processo decisionale è rappresentato dall’informazione in possesso di chi deve compiere una decisione. Nelle teorie basilari ogni individuo ha davanti a sé la gamma completa di opzioni possibili per sé e per gli altri attori coinvolti e conosce le ricompense e perdite in cui incorrerebbero scegliendo ciascuna opzione (per capirci, tipo nel Dilemma del Prigioniero). In questo modo capire quale sia l’opzione migliore per noi e quale per gli altri diventa una semplice operazione matematica. Ovviamente, però, la realtà non funziona così. Nei giochi baynesiani, per esempio, gli attori coinvolti conoscono le opzioni a loro disposizione ma non la matrice di ricompense e perdite in cui ogni attore incorrerà scegliendole, rendendo assai più difficile prevedere cosa faranno gli altri e, quindi, cosa conviene fare a noi. Ancora più complessi sono invece quei giochi dove gli attori, oltre a non conoscere le matrici di ricompense e perdite, non conoscono nemmeno tutte le opzioni a loro disposizione, dovendo quindi prendere decisioni quasi alla cieca. Quest’ultima condizione è, purtroppo, quella che più assomiglia alla vita reale.
Per capire cosa questo abbia a che fare con la disuguaglianza c’è un piccolo aneddoto. Qualche anno fa andai a vedere una conferenza su disuguaglianze di genere organizzata da un’amica. La speaker principale, una manager americana della Silicon Valley, si presentò per il suo monologo con il figlio neonato a tracolla, e per tutta la durata seguitò a dondolarsi sulle ginocchia in modo da cullarlo e mantenerlo così addormentato. In seguito con la mia amica organizzatrice scherzammo sul fatto che se fosse stata italiana sarebbe stata immediatamente crocefissa dal giudizio delle astanti, perfino in quell’ambiente di agguerrite donne femministe italiche. Da noi ancora troppo spesso professionalità e maternità sono intese come due mondi che non possono comunicare, quando non una scelta a somma zero tra l’una e l’altra. L’essere americana – quindi eccentrica e sostanzialmente aliena – la salvò dall’impietoso giudizio che solo le altre donne sanno dare alle loro simili e le concesse pure uno scrosciante applauso finale. Ma nonostante il vago mal di mare in cui si poteva incorrere a causa del suo continuo molleggiamento, seguirla fu molto utile perché disse alcune cose rivelatrici a cui ho ripensato diverse volte negli anni seguenti.
Uno dei punti centrali del suo discorso si concentrò infatti sulla difficoltà che aveva incontrato nel suo ambiente di lavoro, sicuramente estremamente meritocratico e competitivo per gli standard internazionali, per far capire ai suoi colleghi, la maggior parte dei quali persone estremamente intelligenti e capaci, che nonostante il duro lavoro e le loro grandi capacità avevano comunque goduto di un vantaggio relativo dato dal fatto di essere nati, per la maggior parte, maschi, bianchi, e di buona famiglia. Perché questo non solo aveva dato loro sicurezza economica per pagarsi gli studi o la possibilità di non andare incontro a discriminazioni rilevanti; questo aveva infatti permesso loro, prima di tutto, di socializzare fin dall’infanzia con un gruppo sociale di adulti colti e benestanti che già facevano lavori ad alto contenuto culturale e tecnologico, di osservarne le esperienze di vita, i modi di fare e di assorbirne molte delle caratteristiche culturali. In poche parole, aveva permesso loro di imparare da subito come intraprendere quel percorso di vita e diventare simili agli adulti che frequentavano fin da piccoli. Qualcosa a cui molti altri individui, pur magari dotati delle stesse capacità intellettuali, non avevano avuto accesso. Molti, nati in ambienti completamente diversi, nel tempo possono riuscire a farsi una vaga idea di ciò che devono fare per ottenere una certa posizione, dopo aver deciso che è quella che desiderano. Questo però richiederà infinitamente più tempo, energie, ed errori di calcolo. Un lungo processo che può portare facilmente queste persone a rinunciare pensando di non essere abbastanza abili, oppure che il gioco è truccato in quanto loro percepiscono di fare tutto giusto pur senza conseguire l’obiettivo.
Nel dibattito pubblico italiano questo tipo di effetto cognitivo comincia a farsi strada nello studio dei diversi risultati scolastici dei figli dei laureati rispetto a quelli di persone con un livello di educazione più basso. Il gap è molto significativo anche quanto (e in Italia capita spesso) le famiglie di laureati sono più povere in termini di reddito rispetto a famiglie composte da genitori non-laureati. Il fatto di assorbire da subito una conoscenza più granulare di ciò che significa studiare, saper esporre e scrivere (o anche solo sapersi atteggiare da “colti”) concede spesso vantaggi enormi rispetto agli altri (ammesso, ovviamente, che in un paese come l’Italia laurearsi sia un vantaggio). Ovviamente questo gap non è evidente nelle interazioni quotidiane tra studenti, ma viene implacabilmente fuori nella conta del numero di persone che lasciano l’università senza completarla e che vengono da famiglie prive di laureati. In questi casi si tende spesso a vedere la difformità di risultati come la conseguenza di qualche sorta di differenza genetica in intelligenza (o stupidità) e non l’effetto di un diverso apprendimento culturale in corso sin dall’infanzia che ci rende ignoranti prima di tutto rispetto alla nostra stessa ignoranza. È lo stesso Dunning ad aver reso questo concetto nel mondo più efficace:
“La nostra ignoranza, in generale, condiziona le nostre vite in modi che non possiamo conoscere. Detto semplicemente, le persone tendono a fare quello di cui sanno e falliscono nel fare ciò di cui non hanno nessuna reale concezione. In questo modo l’ignoranza devia profondamente il corso che le nostre vite prendono… Le persone falliscono così nel raggiungere il loro potenziale come professionisti, amanti, genitori e persone; semplicemente perché non sono coscienti di ciò che è loro possibile.”
Il risultato è che anche quando si ha la percezione di godere di una certa parità di opportunità (perché, per esempio, l’accesso all’università è semplice a prescindere dal reddito) un’altra forma di ineguaglianza più recondita può ancora intervenire in modo determinante.
Ovviamente, tutto questo è ampliato mille volte dall’ineguaglianza in termini di ricchezza. Se, infatti, in società piuttosto eguali, individui provenienti da famiglie molto diverse per livello culturale e reddito hanno ancora la possibilità di incontrarsi sui banchi di scuola o in altri luoghi di socializzazione e influenzarsi a vicenda, in società caratterizzate da grandissime distanze in termini di distribuzione della ricchezza questo avviene raramente (o semplicemente mai), segregando gli individui non solo in bolle di agiatezza o disagio ma anche in bolle di apprendimento sociale differenziato che li porteranno inevitabilmente a ripercorrere le stesse vie esistenziali di coloro che li circondano e che li renderanno quasi completamente incapaci di perseguire strade diverse pur desiderandole (ovviamente il “quasi” è lì per tenere conto del fattore “genio” che alcune persone hanno, e le cui storie vengono spesso sbandierate dalla società per dare una parvenza di reale uguaglianza di opportunità dettata puramente dal merito).
Questo vale per gli studi ma anche per ogni altro ambito. La disuguaglianza tende a chiudere le persone in ambiti sociali circoscritti, composti da loro simili e dove l’apprendimento sociale – l’intelligenza collettiva di Sloman e Fernbach è circoscritta ad alcune esperienze di vita e rende le altre irraggiungibili e nebulose. Per alcuni, messi da subito sui giusti binari per il successo, questo è certamente un bene; per altri, che quando la disuguaglianza è alta sono la stragrande maggioranza, questo rappresenta invece perlopiù una condanna.
È quindi questa, forse, la realtà più inquietante e sgradevole dell’ineguaglianza, se guadata in tutta la sua complessità. Una realtà che non ha che fare soltanto con gli indici di GINI e i numeri delle disparità di reddito e ricchezza ma che riguarda da vicino e intimo il nostro funzionamento come animali sociali, condizionati da ciò che ci circonda molto più di quanto vorremmo e soprattutto di quanto è in nostro potere modificare.
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