Debiti faraonici
Cosa è successo: In questi giorni l’Egitto è sotto i riflettori del mondo. Lo è a causa della COP27, l’annuale conferenza sul clima che si svolge proprio in queste ore nel Paese. Per molti nerd economisti, però, l’Egitto è sotto i riflettori da molti mesi per un motivo forse perfino più urgente del cambiamento climatico: il Paese è vicinissimo alla bancarotta.
Questa realtà ha colpito molti osservatori del Paese, soprattutto se non economisti (e/o non nerd). Durante la pandemia, infatti, l’Egitto si era distinto per la performance del Pil: mentre la grande maggioranza degli stati del mondo nel 2020 hanno registrato una contrazione economica più o meno drammatica, l’Egitto sembrava essersela cavata brillantemente: giusto un rallentamento prima di prendere un nuovo slancio. Ma non è tutto oro quel che luccica. La crescita economica di questi anni, infatti, è stata in gran parte causata da enormi investimenti pubblici in infrastrutture faraoniche (pun intended) pagate a debito. Non solo: con debito a breve termine. Ciò ha reso il Paese particolarmente esposto al recente rialzo dei tassi di interesse globali, che ha reso il costo del debito (e del suo rifinanziamento) molto più alto che in passato. L’Egitto si è quindi trasformato da un giorno all’altro da felice locomotiva avviata verso uno sviluppo radioso a treno avviato a tutta birra verso il precipizio.
Gli alleati del Golfo (Arabia Saudita, Emirati e Qatar) hanno finora allontanato artificialmente questo precipizio, versando fondi nelle casse egiziane. Ma prima di impegnarsi in un salvataggio più di lungo termine vogliono garanzie.
Queste garanzie sono rappresentate dall’accordo che il Paese ha da poco raggiunto con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Secondo l’accordo, il governo si è impegnato a intraprendere riforme strutturali molto, molto dolorose. In particolare: il “floating” della valuta (ovvero il passaggio a un sistema in cui il valore della valuta non è fisso ma dipende solamente dal mercato), il taglio dei sussidi su cibo e carburante e la privatizzazione di una larga percentuale di aziende pubbliche.
Perché è importante: molti sarebbero tentati di pensare che le prime due riforme siano le più dolorose. In fin dei conti una valuta “fluttuante” significa nel breve periodo maggiore svalutazione e inflazione. E, ovviamente, il venire meno dei sussidi non può che mettere il turbo a questa inflazione, soprattutto su beni essenziali come cibo ed energia. La popolazione, già provata da prezzi in crescita da mesi potrebbe quindi ribellarsi. Tutto vero. Ma la vera trappola per l’attuale regime che guida l’Egitto si insidia in realtà molto di più nella terza condizione: le privatizzazioni.
Da quando è salito al potere con un colpo di stato nel 2013, il generale Abdelfattah Al-Sisi ha infatti silenziosamente invertito le lancette della storia dell’economia egiziana. Nei trent’anni precedenti, prima la presidenza di Anwar Sadat e poi quella di Hosni Mubarak avevano infatti metto in campo misure per erodere lentamente il potere economico delle Forze Armate, il quale era stato dominante fin dalla Rivoluzione degli Ufficiali Liberi del 1952. L’obiettivo era cercare di creare finalmente un settore privato in grado di rinnovare e sviluppare l’economia nazionale (pur tenendola sempre nelle mani di imprenditori connessi alla famiglia presidenziale). Lo spazio faticosamente eroso ai militari è stato però da quest’ultimi facilmente riconquistato negli ultimi 9 anni. La presidenza di Al-Sisi ha infatti completamente disdegnato il sostegno della società civile, compresi gli imprenditori privati un tempo fedeli a Mubarak. Al contrario, il nuovo presidente ha fatto delle Forze Armate la colonna portante (e armata) del proprio consenso, riconsegnando loro le chiavi di tutta l’economia.
Almeno fino a oggi. Le profonde disfunzioni causate da questa “economia militarizzata” sono venute al pettine con i recenti shock, e stanno ora costringendo il presidente egiziano a privare i suoi leali sostenitori di una parte consistente del loro potere economico (e politico). Privatizzare le aziende pubbliche significa infatti prima di tutto togliere all’Esercito a ai suoi alleati enormi fonti di guadagno monopolistico e di posizioni di rendita (solitamente a discapito di competitività e efficienza della spesa pubblica)
Non è un rischio da poco, se uno va a guardare da vicino quello che sappiamo della cosiddetta Primavera egiziana che nel 2011 spodestò l’allora presidente Mubarak: nonostante le masse che avevano affollato per settimane le piazze del Cairo nel 2011, tutte le ricostruzioni sottolineano ormai come per la caduta di Mubarak fosse stato cruciale proprio il ruolo dell’esercito, scontento a causa di decenni di graduale esautorazione economica e politica. I vertici delle Forze Armate avevano quindi preso il controllo della transizione politica che era seguita, per poi rimuovere definitivamente ogni possibile competitor politico dal mondo civile con il colpo di stato contro Morsi nel 2013. Dei vertici delle Forze Armate che dal 2011 avevano partecipato a queste manovre faceva anche parte un giovane generale, che era rapidamente cresciuto nei ranghi fino a guidare la rimozione di Morsi e diventare presidente. Risulta difficile pensare che se ne sia scordato.
Superliquidator vs ultradeficit
Cosa é successo: La guerra della Russia contro l’Ucraina rischia di precipitare l’Europa a un inverno difficile, ma i costi della crisi energetica si stanno manifestando anche nei Paesi emergenti, dove i governi lottano per garantire il flusso di energia ai cittadini colpiti dall’inflazione.
Ad agosto, il governo pakistano ha dovuto imporre blackout cilcici e un repentino aumento delle bollette elettriche a causa di difficoltà nel rifornimento di carburante. In Bangladesh i negozi hanno iniziato a chiudere alle 20.00 come parte delle misure di austerità energetica, mentre il governo messicano ha aumentato i sussidi per ammortizzare i costi dell’elettricità nelle abitazioni.
La crisi arriva in un momento particolarmente difficile: Il passaggio globale a fonti energetiche più pulite ha fatto sì che le economie sviluppate non investissero negli sforzi per aumentare la produzione di combustibili fossili, mentre le nazioni più povere venivano spinte ad adottare gas naturale più pulito. Ora, con i prezzi del gas aumentati di oltre il 150% dopo l’invasione russa di febbraio e con le nazioni più ricche in grado di pagare di più per garantire forniture adeguate, sta diventando chiaro che i Paesi emergenti non possono competere. I Paesi europei hanno aumentato le loro importazioni di GNL del 49% dall’inizio dell’anno al 19 giugno, secondo i dati di Wood Mackenzie, una società di consulenza energetica. Nello stesso periodo, invece, le importazioni dell’India sono diminuite del 16%, quelle della Cina del 21% e quelle del Pakistan del 15%. Il caso pakistano é emblematico. A luglio Islamabad ha presentato un’offerta per 10 carichi – 140.000 metri cubi ciascuno, per un valore di oltre 100 milioni di dollari a carico – da consegnare da luglio a settembre. I funzionari pakistani hanno tuttavia dichiarato di non aver ricevuto alcuna offerta entro la scadenza . Nelle settimane precedenti, tre gare d’appalto per i carichi di GNL hanno ricevuto un’unica offerta, a 40 dollari per MMBtu, che si collocava ben al di là delle possibilità del Paese.
Il gas liquefatto (GNL) ha un ruolo particolarmente importante. A differenza dell’energia che scorre nei gasdotti, il GNL è un mercato estremamente globalizzato. Inoltre, è un prodotto libero da vincoli di destinazione, il che significa che gli acquirenti possono decidere di rivendere le loro forniture se ritengono di poterne ricavare un bel profitto. Tuttavia, le distanze dai mercati stanno aumentando e i costi totali per il trasporto del gas naturale con le navi metaniere sono più alti di quelli del petrolio o del carbone. Come per il petrolio, le risorse di gas naturale sono distribuite geograficamente in modo molto disomogeneo e si trovano principalmente al di fuori delle principali regioni di consumo . Questa realtà sta iniziando a sollevare questioni economiche e geopolitiche paragonabili a quelle che caratterizzano il mercato del petrolio.
Perché è importante: Il 56% delle riserve di gas naturale si trova in soli tre Paesi (Russia, Iran e Qatar). Questi Paesi hanno la possibilità di scegliere economicamente di spedire il loro gas in Asia, negli Stati Uniti o in Europa, ovunque si possa trovare il mercato migliore. Questa potrebbe essere una scelta anche basata su quale mercato possa servire meglio gli interessi geopolitici a breve o a lungo termine.
I diversi attori politici stanno provando a trovare soluzioni a queste problematiche. Il nuovo piano dell’Unione Europea per liberarsi del gas russo, ad esempio, mette in evidenza l’Africa subsahariana per il suo „potenziale non sfruttato del GNL”, riferendosi al gas naturale liquefatto che viene importato via nave. Questa primavera il ministro degli Esteri italiano ha visitato l’Angola e il Congo per firmare nuovi accordi sul GNL e il mese scorso il cancelliere tedesco si è recato in Senegal per colloqui sul gas.
Nel corso degli ultimi mesi, dirigenti e amministratori delegati americani ed europei del settore energetico sono atterrati con jet privati in tutta l’Africa, per convincere i governi ad accelerare i progetti che, a loro dire, alimenterebbero la disperata domanda di gas dell’Europa.
Una di queste società energetiche è l’italiana ENI, che sta accelerando i piani per il GNL in Congo e ha firmato nuovi contratti per il gas in quel Paese e in Angola dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ma ci sono sempre più dubbi sul fatto che gli investimenti multimiliardari in GNL abbiano senso per le nazioni africane. Mentre alcuni progetti entreranno in funzione nei prossimi anni, molti richiederanno più di un decennio. In più, essi vengono portati avanti in un momento in cui gli scienziati climatici stanno facendo di tutto per convincere l’opinione pubblica che le riserve di combustibili fossili deve rimanere nel terreno, inutilizzata, in modo che il mondo possa ridurre le emissioni di gas serra ed evitare le peggiori catastrofi del cambiamento climatico. L’Africa subsahariana, in fondo, é fra le aree mondiali più vulnerabili alle condizioni climatiche estreme.
IMMAGINE GENERATA DA INTELLIGENZA ARTIFICIALE DALL-E 2 DI OPEN AI DIGITANDO “Egypt economy close to bankruptcy”
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